Barbara Amadori, insegnante di sostegno, laureata all’Accademia di Belle Arti di Urbino e da sempre appassionata di arte contemporanea, nel 2019 ha ricevuto la diagnosi di tumore al seno. Durante il percorso di cura ha sentito il bisogno di comunicare attraverso il linguaggio dell’arte la malattia. L’abbiamo intervistata per farci raccontare come è nata l’idea, e come è stata realizzata, della mostra ‘Arte come cura’ inaugurata a Città di Castello (Umbria) il marzo scorso ma che tornerà dal 7 al 29 maggio al Museo Casa Cajani di Gualdo Tadino. La mostra è stata realizzata grazie alla collaborazione con l’Aacc – Associazione Altotevere contro il cancro. Nella gallery alcune opere delle 15 artiste che hanno partecipato, che ringraziamo di cuore per aver messo a disposizione le fotografie.
Non solo dipinti, ma anche sculture, installazioni, oggetti di design e fotografie. Sono le opere di 16 diverse artiste che hanno deciso di utilizzare il linguaggio dell’arte contemporanea per raccontare l’esperienza del tumore al seno. La mostra – dal titolo “Arte come cura” – è stata inaugurata a Città di Castello (Umbria) all’inizio di marzo e tornerà dal 7 al 29 maggio al Museo Casa Cajani di Gualdo Tadino, per poi raggiungere altre città.L’idea è della giovane artista umbra Barbara Amadori, insegnante di sostegno laureata all’Accademia di Belle Arti di Urbino in pittura e arti visive contemporanee, che racconta: “Nel 2019, a 37 anni, ho ricevuto la diagnosi di tumore al seno e ho dovuto affrontare quattro interventi, tre dei quali in piena pandemia. È stato proprio in ospedale, a Città di Castello dove ho seguito il percorso di cura, che, mentre ero da sola in una stanza in attesa dell’intervento, ho avvertito il bisogno di rifugiarmi nell’arte per comunicare. Osservando una parete verde, mi è tornata la voglia di dipingere, dopo anni”.
L’arte è stata una via di fuga durante i mesi in ospedale?
“Sì, dal ricovero in ospedale al momento del ritorno a casa, l’arte è stata la mia valvola di sfogo. Ho avuto momenti di sconforto in cui mi sono chiusa molto in me stessa. Prima dell’intervento ho chiesto a mia sorella di portarmi un taccuino e dei pastelli e così ho iniziato a disegnare quello che vedevo al di là della finestra e quello che, invece, mi circondava nella stanza. Il fuori e il dentro. A causa del drenaggio, dopo l’intervento, non potevo muovermi tanto e per questo mi sono concentrata di più sulla scrittura come mezzo espressivo. Su un rotolino di carta ho riversato tutti i miei pensieri, come una sorta di flusso di coscienza, ma anche le frasi dei medici, degli infermieri e delle compagne di stanza. Ho voluto tenere traccia di tutto ciò che sentivo e custodire, in un certo senso, degli appunti acustici”.
Com’è nata l’idea della mostra?
“È stato fondamentale il mio rapporto con Luciano Carli, il medico di chirurgia senologica e chirurgia plastica e ricostruttiva che mi ha operato. Ho condiviso tanto con lui: pensieri, paure, riflessioni, momenti di sconforto, ma anche la passione per l’arte. Proprio negli attimi di maggiore tensione, chiacchieravamo di arte e progetti futuri. Durante il Covid, quando era vietato l’ingresso agli accompagnatori negli ospedali, mi sono ritrovata ad affrontare le giornate senza la possibilità di avere accanto, fisicamente, amici e familiari. Il dottor Carli è stato per me una presenza costante e un’ancora di salvezza. Con la sua umanità, la sua voglia di ascoltarmi e la sua grande sensibilità artistica mi ha aiutata molto. Così, parlando, è nata l’idea di poter organizzare in futuro una mostra”.
Sono passati due anni per realizzarla…
“Sì, una volta tornata a casa ho creato sei opere, tutte legate all’ospedale e alla malattia. La mostra era ancora solo un’idea che è riuscita a prendere forma concreta solo in un secondo momento. Un giorno il dottor Carli mi ha telefonato dicendomi che un’associazione, l’Aacc – Associazione Altotevere contro il cancro – era interessata al progetto. È stata proprio quest’associazione, impegnata nella prevenzione e nella sensibilizzazione del tumore al seno, a diventare l’ente promotore della mostra che a quel punto poteva davvero essere realizzata”.
Ha pensato subito di coinvolgere altre artiste?
“Sì, ho contattato 15 diverse artiste che già conoscevo e che hanno mostrato interesse per il progetto. L’idea era realizzare una mostra collettiva, cioè utilizzare lo stesso linguaggio, quello dell’arte contemporanea, per poter declinare in modi diversi la malattia. Sicuramente non è stato semplice anche perché non tutte, fortunatamente, hanno vissuto questa esperienza personalmente, quindi, c’è stato anche un lavoro di immedesimazione e immaginazione. Alcune opere sono state realizzate appositamente per il progetto; altre sono state selezionate perché ritenute attinenti al tema. La mia paura più grande era cadere nel banale o nella retorica, ma questo è stato evitato grazie al prezioso lavoro dei curatori Nello Teodori e Roberto Vecchiarelli”.
Mi può raccontare una delle sue opere?
“Una delle prime opere che ho realizzato si chiama A chi si ferma e ascolta. Quando sono andata via dall’ospedale ho messo nello zainetto una coperta termica che avevo chiesto all’infermiera, anche se non avevo ancora idea di come utilizzarla. Poi è nata quest’opera che in realtà è un’installazione e ha come tema l’ascolto. Un’opera dedicata a chiunque abbia voglia di ascoltare l’altro. Paradossalmente, nei momenti di crollo emotivo, diventa più semplice parlare e sfogarsi con una persona che si conosce poco perché si tende a proteggere i familiari e gli amici dalla propria sofferenza. Almeno, questo è quello che ho vissuto io. Così, ho realizzato quest’opera rivolta a tutte le persone che ho incontrato durante questo percorso e che si sono fermate ad ascoltarmi. Non solo i medici, ma anche gli infermieri e le compagne di stanza. Durante i giorni trascorsi in ospedale, ogni momento di dialogo e di condivisione con ciascuna di loro per me è stato fondamentale”.
Arte come cura: il titolo della mostra fa pensare all’arte che aiuta, in un certo senso, a lenire la sofferenza…
“Il titolo della mostra nasce da una chiacchierata tra me e Luciano Carli, il chirurgo. Nel catalogo, pubblicato dalla casa editrice Magonza, Luciano Carli scrive: ‘questa iniziativa ha lo scopo di comunicare attraverso l’arte l’essenza di un’esperienza e creare un segno tangibile e permanente che lasci nel tempo, aperto e percorribile, il ponte tra l’artista e l’osservatore. Quando questo segno è efficace e ti permette di guardare fino in fondo, con coraggio, nell’abisso della sofferenza e di accettarla finalmente come parte della propria esistenza, senza fuggire da essa, allora l’arte diventa cura’. Credo che queste parole racchiudano il senso della mostra e il suo significato”.
Le autrici delle opere della photogallery sono Barbara Amadori, Catia Ceccacci, Chiara De Megni, Martina Donnini, Giulia Filippi, Wilma Lok, Ilaria Margutti, Donatella Marinucci, Lidia Nizzo, Barbara Novelli, Elisa Pietrelli, Virginia Ryan, Isabella Sannipoli, Meri Tancredi, Maddalena Vantaggi, Rita Vitali Rosati. Le ringraziamo di cuore.
Sostengono il progetto: Farmacia centrale Capeci, Lions Club Gualdo Tadino, Maria Contigiani Cashmere, Birra Flea, Ecosuntek, Autosalone Pucci, Monacelli costruzioni Gubbio, Team Dev e Magonza Editore.